Ame, sensori e cloud contro gli infortuni sul lavoro

Ame, sensori   e cloud contro  gli infortuni  sul lavoro
Ame, sensori e cloud contro gli infortuni sul lavoro

MENO INFORTUNI grazie alla tecnologia. Non è un’utopia, ma una realtà. L’azienda Ame, fondata a Firenze nel 1999 come spin off universitario da due giovani ingegneri visionari, colleghi universitari e amici, ha messo a punto Ampesphere, una piattaforma Cloud in grado di prevenire e ridurre il numero di infortuni. Negli ambienti di lavoro, in fabbrica, in un cantiere o in altre aree di produzione, vengono infatti installati dei sensori che rilevano e monitorano le condizioni di lavoro e i relativi livelli di rischio degli infortuni. "In sostanza – spiegano i due fondatori dell’azienda, il presidente Claudio Salvador e l’amministratore delegato Filippo Bonifacio (nella foto sopra)– riusciamo ad avere un’indicazione oggettiva di quelli che sono i mancati incidenti sui luoghi lavoro, quelli cioè che non finiscono nelle statistiche, riferite oggi solo alle denunce di infortunio. Tutte queste informazioni raccolte sulla piattaforma cloud possono essere così utili al responsabile sicurezza dell’azienda per portare delle migliorie nell’ambiente di lavoro e diminuire costantemente la rischiosità in un’area di produzione, in un cantiere o simili".

"Per lavorare in sicurezza, infatti – proseguono Salvador e Bonifacio – i cinque sensi sono necessari ma non sono sufficienti e per questo siamo sempre alla ricerca di tecnologie e sistemi sempre più all’avanguardia in grado di elevare gli standard di sicurezza preventiva in ambito lavorativo, cercando sempre di più di azzerare il rischio di incidenti e garantire un diritto umano inalienabile, ovvero quello di poter tornare a casa sano e salvo dal lavoro".

Il vostro lavoro è un patrimonio pubblico. Avete proposto a Inail di usare i dati che raccogliete grazie a questa nuova piattaforma?

"Vorremmo farlo, sì. Perché pensiamo di poter dare un contributo importante. Gli enti pubblici, come l’Inail, hanno dati relativi agli infortuni e alle morti sul lavoro. Manca però, vogliamo sottolinearlo ancora, l’analisi dell’effettivo rischio che affronta tutti i giorni il lavoratore nella sua azienda. I cosiddetti ‘mancati’ incidenti. Noi invece li possiamo individuare e catalogare secondo il livello di rischio e questo potrebbe essere utliizzato per fare una statistica più oggettiva. Tra qualche anno potremo anche avere un numero sufficiente di informazioni relative alle modalità di infortunio più diffuse in aziende di uno stesso settore, per esempio le industrie cartarie o alimentari o logistiche. Per Inail sarebbe un valore aggiunto, per capire dove andare ad agire, con l’obiettivo di ridurre un numero che resta costante ormai da anni, che è quello dei morti sul lavoro: sono tre al giorno, circa 1.200 l’anno".

Di quanto potrebbero ridursi in Italia gli incidenti sul lavoro con le vostre tecnologie?

“Difficile dirlo, dipende da quanto estesa sarebbe l'applicazione dei nostri sistemi o di quelli simili ai nostri. Ma siamo certi si ridurrebbero. Ce lo confermano diversi elementi. Per esempio abbiamo introdotto nel nostro sistema un indicatore di efficienza e sicurezza, chiamato ESI. Questo numero varia tra 0 e 1: più è vicino allo zero e meglio vanno le cose. Normalmente alle prime settimane di utilizzo del nostro servizio il numero è sempre abbastanza vicino a 1, con l'uso progressivo del sistema, invece, l'indicatore cala e si avvicina allo zero. L'adozione del sistema migliora il comportamento dei lavoratori, gli incidenti si riducono e soprattutto le interazioni con il più alto livello di rischio vanno a zero”.

Quali sono le aziende che investono nella tecnologia per prevenire gli infortuni?

"Le multinazionali. Lavoriamo soprattutto con loro, nelle loro diverse sedi del mondo, da Firenze alla Nuova Zelanda, passando per Stati Uniti, America latina, tutti i Paesi europei. Le grandi multinazionali hanno infatti un budget predefinito per la sicurezza, le piccole e medie imprese no e infatti queste ultime fanno generalmente solo quello che è necessario per legge o al massimo qualche intervento per risolvere problemi specifici. Si attengono, insomma al minimo di legge, alla sicurezza di tipo tradizionale e non tecnologica, basata sulla formazione, lo sviluppo di procedure e l’utilizzo dei dispositivi di protezione individuale, che però non proteggono dagli effetti di eventuali incidenti sul lavoro. Le grandi aziende fanno un po’ di più, ma, ripeto, sono le multinazionali, per salvaguardare i lavoratori, ma anche per una ragione di immagine e reputazione, a investire di più in sicurezza".

Servirebbero più incentivi?

"Sì, perlomeno più specifici per gli investimenti in tecnologie. Esistono infatti degli sgravi Inail che vanno alle aziende che migliorano i piani di sicurezza, ma non è richiesta l’applicazione di sistemi avanzati. L’azienda può, per esempio, migliorare il livello di sicurezza solo dal punto di vista organizzativo".

Qual è la vostra sfida per il futuro?

"Da quest’anno abbiamo iniziato il passaggio da ‘safety’ a ‘service’. Il nostro obiettivo infatti non è quello di vendere un dispositivo, ma un servizio alle aziende, che con il nostro supporto e le nostre tecnologie possono raccogliere tutta una serie di informazioni in grado di elevare gli standard di protezione e prevenzione degli infortuni sui luoghi di lavoro".